Vacanze da incubo “Colombia Edition”

Vi è mai capitato durante una vacanza da sogno di pensare “questa vacanza potrebbe trasformarsi in un incubo”? A me sì, varie volte a dire la verità. Certo dipende anche molto dalla soglia di “incubo” di ognuno di noi, e da quale sia la vostra definizione di “sogno”.

Quello che ci é successo in Colombia, é stato un susseguirsi di eventi, uno dietro l’altro nello stesso giorno, un concentrato di sfiga che ti porta solo a desiderare che la giornata finisca il prima possibile. Ma andiamo con ordine. É l’ultimo giorno dell’escursione nell’Alta Guajira, stiamo per concludere questa parte di viaggio, siamo quasi a Manaure quando, mentre facevamo benzina a lato strada Attila esclama “mamma, cacca!” Mi avvio quindi con lui sotto uno dei tanti alberi, un po’ distanti e non fa neanche a tempo ad abbassarsi i pantaloni che viene preso da un attacco di c@g@$$o svuotante. Lo pulisco alla bene e meglio, metto scarpe e vestiti nella sportina che mi ero portata e continuiamo verso la cittadina. Consiglio: se viaggiate con bambini tenetevi sempre un cambio di indumenti e scarpe/sandaletti a portata di mano perché alle volte raggiungere i bagagli é troppo scomodo. Arrivati a Manaure, dopo aver visitato le saline, andiamo al “ristorante” che l’agenzia ci aveva prenotato per il pranzo, dove battezziamo anche il bagno. Andiamo bene, penso tra ma e me, visto che nel pomeriggio ci aspetta un bel tratto d’auto fino al Tayrona. Arriviamo a Riohacha con un clamoroso ritardo, il taxista poveraccio ci ha aspettato per piú di un’ora e mezza in agenzia ed é in apprensione di non riuscire a farci entrare nel parco (chi alloggia in una delle strutture al suo interno puó entrare anche oltre l’orario di chiusura, ma fino ad un certo punto..). Partiamo da Riohacha verso le cinque, e poco prima di Palomino, localitá della costa famosa per la sua spiaggia, il tempo comincia a chiudersi e a piovere, sempre piú forte. Ad un certo punto ci ritroviamo in mezzo ad un temporale tropicale stile muro d’acqua, quando un albero si abbatte sulla carreggiata proprio mentre gli stavamo passando sotto. Una scena da film, di quelle in cui il passeggero solitamente viene per cosí dire “impalato”. Anche questa é andata, Attila nel frattempo ha smesso di saltare da una parte all’altra del sedile posteriore ed é riuscito a prendere sonno. Per strada ci fermiamo ad ogni supermercato per cercare un genere per noi di prima necessitá, che ci permette di sedare l’erede nei momenti piú difficili: il leche con chocolate, ma non riusciamo a trovarlo da nessuna parte. Prevedo una permanenza complicata. Arriviamo a El Zaino, l’ingresso del parco, in zona cesarini e riusciamo ad entrare in taxi, diversamente avremmo dovuto proseguire a piedi, di notte e sotto la pioggia. Arriviamo all’Eco Hab esausti e sporchi come delle merde, tutto quello che vogliamo e farci una doccia, cenare e rilassarci, ma la giornata non é ancora finita. Continua a piovere. Mentre il taxista scarica i bagagli, Alberto inizia a fare check-in e io sveglio Attila e gli spiego che siamo arrivati in quella che per i prossimi due giorni chiameremo casa. Non sembra molto convinto. Finito il check-in scopriamo che il nostro hab é il n.10, ovvero l’ultimo. Dovete sapere che la particolaritá di questo albergo é che é formato da capanne circolari sparse nella foresta pluviale, tutte vista mare, collegate tra loro tramite un sentiero. Il nostro pungalow é l’ultimo, a 10 minuti di sentiero scivoloso da percorrere sotto una pioggia torrenziale. Chiedo se é possibile avere una capanna piú vicina alla receprion ma no, sono al completo. La signorina dell’accoglienza, mossa a compassione ci manda un ragazzo per aiutarci coi bagagli (gli é andata bene che stiamo viaggiando con dei bagagli a mano) e ci mette in mano due ombrelli: vas con Dios. Diluvia. Ci incamminiamo, e presto Attila viene preso da una crisi isterica: é terrorizzato dalle farfalline che ronzano attorno ai paletti della luce che delimitano il sentiero. Ma non ci sono solo farfalline notturne, la pioggia fa uscire anche una buona quantitá di rospi, che non sembra apprezzare. Piove. Alberto lo prende in braccio e facciamo tutto il tragitto tra urla di disperazione tipo esorcista. Il sentiero sembra non finire mai, io giá mi immagino dispersa tentando di arrivare al ristorante. Arriviamo finalmente all’hab, il ragazzo lascia i bagagli nella parte inferiore sotto la tettoia e ci saluta. Attila continua a gridare, questo soggiorno da sogno in mezzo alla foresta pluviale potrebbe trasformarsi in due giorni da incubo se questa fobia degli insetti prende il sopravvento. Il bungalow é su due piani, la parte inferiore, aperta su tutti i lati in cui si trovano un tavolino e il bagno, e la parte superiore coi letti, raggiungibile tramite una ripida scala di legno. Giá immagino il pargolo rompersi l’osso del collo nel cercare di scendere, quando Alberto, portando su le valige, pianta uno scivolone epico e per poco non ci lascia qualche vertebra. La vacanza poteva finire qui e poteva finire molto male. Dobbiamo ancora cenare, ma l’idea di rivivere le urla di terrore di Attila per andare al ristorante non mi fa impazzire, quindi crepi l’avarizia, ce lo facciamo portare in camera (pagando la cena il triplo). Dopo cena faccio la doccia, c’é un ritorno di fogna e il bagno si allaga. BUONANOTTE.

P.S. Se vi state chiedendo com’é finita col bagno, beh ho chiamato la reception e ci hanno mandato un tuttofare nel cuore della notte, in modo da non esserci d’intralcio durante la permanenza.

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